venerdì 31 dicembre 2010

GIOVANNI



Giovanni portava i baffi. Alle bambine piaceva, l'avevano sempre visto così. Alla mattina, poco prima di uscire, si affacciava alla porta della loro camera e le salutava con tenerezza, quasi staccandosene a fatica. Le bambine , soprattutto la piccola, rispondevano ogni volta allo stesso modo: "saluta tanto i signori della bottega": per stabilire un legame concreto tra sé e il padre, come un filo d'Arianna; e allo stesso tempo per immaginarsi il papà tutto preso dal lavoro con i clienti. Anche per loro il distacco portava con sé un po' di malinconia, ma solo per un momento: poi si lasciavano prendere dalla vita di tutti i giorni. Anche la sera aveva i suoi riti, sempre uguali, ma diversi; la mamma le portava a letto, ma il saluto conclusivo spettava a papà, compresa la formuletta abituale: ma anziché “i signori della bottega” la bimba piccola usava uno sbrigativo “saluta tanto tutti“, riferito a qualche amico venuto per un caffè o una partita a carte. Il momento del commiato, quando era il caso, veniva utilizzato per comporre litigi e asciugare pianti appartenenti alla cena appena conclusa. Non era necessario spiegarsi: bastava dimostrare di avere voglia di "fare pace".Pur essendo un brav’uomo, Giovanni a volte andava in collera per cose di poca importanza, e quando ciò succedeva, spesso alzava la voce. Le bambine si spaventavano in queste situazioni, non già perché temessero qualche scappellotto (non era mai successo), ma perché non sembrava più lui, non lo riconoscevano più. Possibile che fosse la stessa persona allegra, divertente e anche scherzosa che le faceva imboressare con le sue spiritosaggini ? Come poteva cancellare l’allegria di certi momenti e trasformarla in dramma solo perché alla piccola era involontariamente scappata una parolaccia? Tutto finito e addio bella serata? Sì, questo succedeva spesso. D’altra parte, non era lui stesso che metteva in guardia le figlie dalla troppa allegria? “Attente, el ridare va in piànzare!”
E così, come dei funamboli sempre in equilibrio instabile, la famiglia proseguiva la sua “vita col padre” in alterna serenità. Ma questa descrizione non gli rende giustizia. Giovanni era un uomo sensibile, generoso, pronto a fare un piacere anche gravoso a chiunque, capace di commuoversi per il dolore degli altri (e la leggera balbuzie da cui era affetto ne simboleggiava la fragilità); amante della musica e in particolare del violino che aveva studiato per molti anni, appassionato della montagna che gli dava un piacere quasi mistico, soprattutto nei rari momenti in cui, dopo avere accompagnato aver accompagnato le bimbe in una facile escursione in montagna, si isolava per “sentire” la bellezza dei luoghi.
Sembrava che fin dall’infanzia (era il minore di cinque fratelli) si fosse sentito “diverso” dal resto della sua famiglia, composta di persone aride, a volte addirittura spietate. Come se fosse combattuto: prendo a modello i miei fratelli, così severi con i figli? O mia mamma che, pur amandomi non mi ha mai mostrato il suo amore? O mi lascio andare a sorridere giocando con le mie figlie? Forse il suo carattere era il risultato di questo conflitto, e nel comporlo perse qualcosa per strada. Il comportamento divenne più rigido e non riuscì più a ritrovare del tutto la gentilezza e l’affetto di un tempo.
Quando si ammalò, a cinquant’anni, la malattia ammorbidì alquanto il suo carattere. Aveva bisogno degli altri, della presenza della famiglia. Non sentiva più la forza di combattere per avere la supremazia in famiglia, anzi la lasciava volentieri agli altri. Scoprì, purtroppo tardi, che si può essere ottimi padri anche se ci si mostra come si è veramente, anche se deboli e fragili.
E i baffi? Una sera di molti anni prima, ritornò a casa senza. La bimba piccola si impaurì e si mise a piangere: non lo aveva riconosciuto. Un abbraccio mise fine allo spavento.


martedì 14 dicembre 2010



ANGIOLINA



Angiolina, al mattino, appena sveglia, si metteva a cantare a voce spiegata, Incurante se la sentivano dalla strada, dai giardini vicini, dai marciapiedi dove la gente passava. E continuava a cantare durante le faccende: “forbiva”, lavava le scodelle da riempire con pane e latte, raccoglieva le briciole, sembrava felice per ogni piccola cosa. Era alzata solo lei, si godeva il fresco che arrivava dalle finestre che davano sul giardino in ombra. C’era un’aria limpida, come di specchio, e lei si godeva questa piccola solitudine, contenta anche che tra poco sarebbe finita, bisognava lavare e vestire le bambine, preparare la merenda. Faceva tutto volentieri, non era stanca. Era sabato; più tardi, lasciate le bimbe a casa con la nonna andava al negozio in centro dove suo marito la aspettava: lavoravano insieme. C’era da scegliere un vestitino leggero, Ne aveva solo due, uno era un po’ scolorito in un punto, stava bene solo con una spilla messa sopra. Poi aveva un secondo vestito fantasia, fatto di gonna e giacca leggera, con delle bellissime tartarughe dipinte sopra. Le piaceva tanto che avrebbe voluto metterlo sempre, ma che figura ci faceva. Della pezzente. E non sapeva rinunciare al profumo, quello suo: Acqua di Cipro Cantele, diverso da tutti gli altri, era il suo e basta. Mentre si truccava (cipria, rossetto) stava seduta alla toilette, così si chiamava la specchiera con lo sgabello. E faceva mille affascinanti smorfie con le labbra, che sapeva aprire - sporgere, “massaggiare” l’uno contro l’altro. Le bambine, zitte zitte, la guardavano incantate. Era bellissima.
E intanto cantava, mentre suo marito si era alzato e beveva il caffè: tra un po’ se ne sarebbe andato. Contenta di ritrovarsi di nuovo sola, mentre si lavava riprendeva a cantare. Erano tutte canzone aamericane, erano arrivati da poco gli americani, i nostri salvatori, con canzoni, balli e carne in scatola. Le canzoni le cantava in inglese. Non sapeva l’inglese, ovviamente, se lo inventava. E siccome nessuno intorno a lei capiva l’inglese, faceva la sua figura, anche perché in compenso aveva una bella voce forte ed intonata. Si sentiva cantare “Stormy weather” la musica del mago di Oz, blu moon…
Sembrava felice per ogni cosa. E probabilmente lo era. Era da poco finita la guerra, quella terribile che ti poteva capitare di essere bombardato. Poteva capitare in ogni momento: che vita era? La guerra lei, con le sue bambine, l’aveva in parte passata in campagna, in mezzo a tante cose belle e buone: era stata fortunata. Ma anche in campagna c’erano enormi pericoli: così, sempre per caso, poteva passare un drappello di tedeschi o di fascisti alla ricerca di un qualsiasi prigioniero, scappato dalle loro mani ed intrufolatosi in qualche casa. E anche se non lo trovavano, magari tralasciavano di far del malae ai civili approfittandone invece per rubarsi le cibarie (che peraltro, purchè se ne andassero presto, venivano generosamente offerte dagli abitanti)
Ma alla fine la campagna diventò più pericolosa della città; così, con marito e figlie, dovette tornare a casa , e lì convivere con gli ultimi bombardamenti, Nei rifugi antiaerei, unica difesa contro le bombe, si svolgeva un briciolo di vita sociale: ci si ritrovava con amici e occasionali conoscenti e il ritrovarsi tutti insieme era di gran conforto.


“Cara signora, si rende conto che pesa quaranta chili? Dieci di meno! Lei ha bisogno di rimettersi, è troppo deperita, dovrebbe andare per qualche giorno in casa di cura…ospedale…esami…anemia…”
Angiolina stava perdendo la pazienza: “ma dottore, lo vuole capire che mi sento bene? Cosa vuole che mi servano medicine, vitamine…quello che mi serve è la pace e la tranquillità, e adesso ce l’avrò, senza le bombe…stia tranquillo, vedrà come mi riprenderò“…Ed aveva ragione lei, si capisce. Continuò a cantare con un piacere sempre più intenso.per molti anni.. Finché una mattina di maggio di vent’anni dopo la sua voce si spense al canto e alla gioia assieme a quella del marito.

lunedì 13 dicembre 2010

MARIO

C'era una volta un uomo piuttosto intelligente, ma a volte stupido, e non sapeva di esserlo. Era sposato con una donna cattiva ed egoista, che non lo accontentava mai quando lui le chiedeva dei favori. Altre volte gli faceva addirittura dei dispetti, e lui non protestava. Diceva che era importante non litigare. Ma in questo modo lei ne approfittava: gli rovinava le sue cose, gli bruciava i libri e lui, per tutta risposta ne comprava degli altri che facevano la stessa fine. Aveva pochissimi amici perché la moglie non voleva che fosse contento e si divertisse. Lo voleva infelice e solo. Teneva lei le chiavi dei suoi libri e dei suoi dischi, così lui non poteva leggere né ascoltare musica. Non si sa chi fosse più stupido, se lei che era contenta quando lo vedeva infelice, oppure lui che si lasciava fare tutti i dispetti senza protestare.

Un giorno arrivò in città un uomo, e presto lui e Mario divennero amici. Quando Mario gli raccontò della sua infelicità, l'uomo disse: "Ma tu sei veramente poco furbo (voleva dire "stupido", ma non voleva offenderlo): come fai ad essere schiavo di quella donna? Ecco che cosa devi fare: devi ingannarla tenendo con cura quello che non ti interessa e buttando alcune cose che ti piacciono, dandole ad intendere che ti fanno schifo. Così lei non capirà più niente e alla fine la smetterà con queste sue cattiverie. Che gusto ci troverebbe a farti in dispetti se tu farai vedere che non te ne frega niente?

venerdì 10 dicembre 2010

M A R I A


C’era una volta una fanciulla molto infelice. Non sapeva neanche lei perché, non era mai stata trattata male, né tanto meno picchiata: si era semplicemente lasciata vivere senza chiedere niente a nessuno e, pertanto, senza ricevere niente da nessuno. Fin da piccola era così: arida, incapace di dare amore (non ce n’era dentro di lei), e, quel ch’è peggio, senza riceverne: praticamente le era un sentimento sconosciuto.
Passava il tempo giocando triste e immusonita con gli animaletti che trovava nella campagna dove viveva: Ho detto giochi, ma non si divertiva un granché: il suo passatempo preferito era staccare le zampette e la testa delle lucertole o delle cicale: era cattiveria? Non come la intendiamo noi, quella che si rimprovera ai bambini cosiddetti crudeli. No, balzava agli occhi che non c’era neanche vera cattiveria in lei: continuava a lasciarsi vivere senza sentimenti, tranne qualche leggero fastidio quando qualcuno entrava in rapporto con lei.
Il tempo, passando, non modificò apparentemente la sua personalità, ma invece quacosa successe: dalla indifferenza verso gli altri poco per volta passò alla rabbia. Anche in questo caso, nessuno le aveva fatto del male al punto da meritarne qualche punizione: anzi, conoscendone il carattere ognuno stava attento a non urtarla, a lasciarla in pace. E poco per volta divenne cattiva. Una cattiveria di cui non si intuiva la causa né se ne prevedeva l‘andamento o la probabile fine……
Così, quando qualcuno le chiedeva qualcosa, un aiuto, un piacere, essa con il gusto di far star male il prossimo rispondeva un secco NO: e magari si trattava di qualcosa di piacevole anche per lei, che so, una passeggiata, un giro per i campi col carretto: per il gusto di far star male gli altri, si contentava di privarsene anche lei.
Non ne uscì più. Troppo forte era l’ammasso di sentimenti negativi che la portavano a fare del male: se qualcuno stava leggendo un libro lei di nascosto glielo rubava e appena possibile lo distruggeva, oppure si mangiava di nascosto dei cibi di cui altri erano notoriamente ghiotti (e lei no) Insomma non conosceva il significato delle parola generosità, gentilezza, simpatia…

Quando morì (non aveva nessuna malattia: morì per mancanza d’amore) fu un sollievo per tutti, e non già perché con i suoi comportamenti facesse realmente soffrire chi le stava intorno, ma perché la sua cattiveria era diventata qualcosa di tangibile, soffocante, che non dava respiro.